Tuesday, June 24, 2008

LA CONDIZIONE DI UN FILIPPINO


La condizione di un filippino
è vita vera governata dai ritmi di un corpo dell’altro secolo
la condizione di un filippino è una notte insonne
è un pasqua a scartare uova comprate in stock
la condizione di un filippino è un posto in disparte a un funerale
è una lacrima che si ha pudore di far cadere
è una risposta che si conosce meglio di tutti
la condizione di un filippino è precarietà legata, piegata al volere di dio
è un nome che si prende in giro la domenica tra il vino e il secondo
è una pelle stanca, pelle di nicotina col sorriso da indio
è una solitudine che diventa utile
le albe passate a sentire un respiro
è un gap di secoli di industrializzazione pagato caro
siamo noi
veneti di cinquanta anni fa
con le comiche, e i grembiuli ricamati
la condizione di un filippino è una busta d’acqua in cartone
un film neorealista che ci si potrebbe sbancare il botteghino
E’ una vita sprecata
trasformata
frastornata
derisa
eppure eccola!
Ci giudica
E ne ha il diritto
E ne ha la forza
E adesso cerchi di nasconderla
Perché puoi
Ma tornerà
Nei vostri rossi pregiati
In un pigiama troppo ruvido
Per sembrare
Vivo
Ora!
Ora!
Ora!

STANZE PRIVATE


Si chiama “Stanze tirate a lucido” l’ultima fatica della compagnia “Lucido Sottile”, in “mostra” all’interno dello spazio museale “EXMA” di Cagliari, tuttigiorni esclusoilunedì, fino all’otto di Luglio.
Una mostra che non è una mostra.
Un installazione che non è un installazione.
E non soddisfa la definizione di teatro.
Un viaggio invece.
Un viaggio attraverso gli inferi del proprio spazio privato.
Sette stanze come sette ritratti di altrettante esistenze.
Sette è un numero che fa pensare alla numerologia sacra.
La concezione che muove questo viaggio in qualche modo pensa agli ambienti come a sette gironi danteschi:tutti rappresentanti a loro modo di un “peccato” di vivere, inteso in una concezione psicologica di perversione esistenziale più che religiosa o morale.
C’è infatti qualcosa di Dantesco in questo viaggio, un Caronte grottesco che ha le sembianze di un improbabile cameriera guida lo spettatore e ne è in qualche modo il tutore.
Esso è anche il medium ce ci permette di avviare la connessione alle stanze, modem grottesco e surreale.
Una riflessione che gioca sul dualismo privato-segreto e pubblico-visibile attraverso una riflessione sul social network..
Gli spazi sono costruiti come pagine di myspace: irrisolti, ambigui, gli allestimenti celano una verità che la performance svela.
Non c’è verità negli allestimenti, perché la vita è più reale degli oggetti che contiene.
Gli strumenti espressivi, i linguaggi si confrontano, si scontrano, si contraddicono:c’è la musica, l’arte applicata, il design, la danza, la performance teatrale in un lavoro corale che ha coinvolto un numero considerevole di artisti provenienti dalle più disparate esperienze.
Questo lavoro a più livelli esprime tra l’altro la dimensione di un villaggio globale dove tutti siamo parte del discorso artistico anche per il solo fatto di esistere e operare.
La volontà di sfruttare una dinamica situazionista appare chiara almeno quanto i giudizi contrastanti che si possono raccogliere nei dibattiti a capannelli che si istruiscono appena ci si riappropria dell’aria del giardino: molto prevedibili, molto coinvolgenti, molta gazzosa, molto figo.
Le Nostre, che pare non amino le mezze misure, pensiamo abbiano raggiunto un obiettivo già di per sé considerevole in una città che ha bisogno di un vero dibattito culturale almeno quanto ha bisogno dell’aria di mare nei polmoni per non morire di asma e di noia.
Alla fine si esce (passandoci attraverso) da una vagina (insanguinata?), nel senso letterale di una figa (insanguinata?) e nel senso più metaforico di sublimazione dell’atto artistico ormai consumato, con dolore, la connessione madre, l’atto di creazione per eccellenza.
Insomma si va per vedere ma alla fine si finisce sempre per fottere.
Solo che questa volta fa un po' male e ci si perde la verginità.

ALLE ARMI!


Un aria strana pervade le schiere ridenti del POP nell’epoca myspaciana nell’anno 2008.
Ed è già da un po’di tempo a questa parte.
Nel belpaese i Baustelle pubblicano il loro masterpiece tutto fiati archi saturi saturi, un disco che non ti aspetti.
Ci sembra che qualcuno abbia dato il tana liberi tutti, perché i produttori e i gruppi di mezzo mondo hanno liberato energie represse e fondamentalmente, diciamolo, se ne fottono.
E Finalmente, diciamolo a voce anche più alta, si cerca di imporre un suono invece di assorbire dalla strada, dalla disco, dai ghetti, dalle subculture metropolitane come è stato dalla metà dei ‘90 in poi.
Niente da rinnegare, intendiamoci, ma siamo felici che la canzone leggera, il pop, la canzonetta direbbe Bennato, abbia riacquistato fiducia in se stessa, nella libertà che le è propria e nelle proprie possibilità, in quanto strumento culturale, di fare massa.
Ed ecco che si inserisce in questo rinascimento, splendente e sentitissimo, il nuovo disco dei Coldplay.
Finiti nel piacevole ma scontato stereotipo del suono coldplayano con X&Y, sembrava dovessero rimanerci per un po’.
Invece ecco“Viva la vida” cantare l’inno della libertà musicale ritrovata, della vittoria che guida i musicanti alla presa della Bastiglia, industria afasica e prevedibile.
Non è casuale che proprio in questa fase i Nostri abbiano rischiato la rottura con la loro etichetta, la EMI, dimostrando in misura evidente che il rapporto tra produzione industriale e artistica è fatto di intrecci a doppio filo, e che l’occhio che percepisce l’immagine su MTV evidentemente non è ancora in grado di mettere i tappi dentro le orecchie che devono ascoltare.
L’industria esige lo stesso prodotto e non sempre è disposta ad accettare le piccole virate che possono disorientare il pubblico ammaestrato.
Non si pensi ad una rivoluzione d’Ottobre.
I riferimenti musicali di questo disco sono nuovissimi quanto le scarpe delle nostre nonne, quelle in vernice col tacco, che pare vadano fortissimo questo anno: ci sono gli Smiths che non ti aspetti, un po’ dei Roxy Music che ti aspetti, gli XTC, e poi c’è il soul e ti lascia felice come un ragazzino sulle autoscontro.
Chi non ha mai amato il gruppo inglese di certo non inizierà a farlo adesso.
Eppure si respira un aria di libertà: c’è il gruppo, ci verrebbe da dire, un collettivo in sintonia e ritrovato che riesce ad elaborare il tutto con piglio sentito, sincero e personale: il lavoro di Eno alla produzione si sente quel tanto che basta a far sembrare i Coldplay un altro gruppo
Le ritmiche sono serrate.
La voce di Martin è più ruvida, espressiva, viva: poco prodotta o forse molto prodotta da sembrare il frutto di una registrazione in presa diretta.
I Coldplay hanno tenuto a precisare di essersi prodigati nell’ esperimento dell’esecuzione in presa diretta “suonando tutti assieme l’uno di fronte all’altro nella stessa stanza come un vero gruppo”.
La freschezza del suono sembrerebbe confermare questo orientamento.
Tranquilli non è la rivoluzione d’Ottobre, tutt’ al più è giacobinismo, rivoluzione liberale e borghese.
Ma alzi la mano chi, fin dalle scuole elementari, non ha fatto il tifo per Massimiliano Robespierre.