IL bambino si alza e spinge, e scalpita.
Tira dei calci, alza la mano , poi la voce e digrigna i denti, che sembra che la tensione gli cambi i connotati del viso.
Poi, sempre più spavaldo, alza il ditino, prima uno, poi tutta la mano e tira, tira forte, così forte... Spam, il filo si rompe ed ora lui si vergogna che non vorrebbe mai aver protestato cosi violentemente, o almeno, non per così poco.
Quando il filo si spezza non hai più voce in capitolo, pum, finito, il gioco è finito, la giostra non gira più e tu, tu non puoi più tentare di acchiappare quel lembo di stoffa sudicio e grasso che stava appeso lì, a pochi metri, come il simbolo di qualcosa sempre uguale a se stesso eppure sempre presente.
Adesso non urla, e non scalpita, e non chiede più il gioco fatuo, e vorrebbe scomparire, prendere la rincorsa su per la strada rossa e poi giù, splash, in mare, nuotare coi pesci, risalire la corrente, tornare dall'altra parte e mettersi a correre, arrivare da dietro mezzo asciutto e mezzo bagnato e dire: hai visto come sono stato bravo? per farti perdonare pottresti comprarmi un gelato, per farmi perdonare potrei studiare tutto il giorno stasera.
Ma non è pià possibile, non funziona più. E allora decide di fare l'unica cosa che si fa quando c si vergogna: restare fermo, assolutamente femissimo senza fare niente e aspettare, che piova, che muoia qualcuno, di essere utile in qualche modo, ma mai a se stesso.